lunedì 24 settembre 2012

LA GRANDE MILANO - SECONDA PUNTATA



Il tema del ‘bene comune’ sta subendo in Italia il medesimo processo degenerativo  di altri dei quali si è abusato in un passato anche recente (‘piano’, ‘programma’, ‘concertazione’ …), con la conseguenza di suscitare adesso in noi fastidio, se non addirittura la frustrazione che discende dalle “grandi” illusioni che finiscono per trasformarsi in enormi delusioni. In tal modo siamo al paradosso per cui l’espressione stessa (il denotante) è venuta a fare parte del denotato; oggi non c’è infatti uomo politico, “emergente” o di vecchio corso, che non ritenga opportuno un riferimento “di principio” al bene comune nei propri interventi pubblici, guardandosi tuttavia dal fornire al suo uditorio una benché minima spiegazione circa i significati che ad esso  dovrebbero attribuirsi.

Questi significati sono divenuti naturalmente assai più complessi rispetto al remotissimo passato al quale ho accennato nel precedente post; tanto l’area dei beni comuni materiali  che quella dei beni immateriali si sono dilatate in misura impressionante.  Nel primo caso il numero delle risorse utili all’uomo è cresciuto a dismisura; di altre è stata compromessa la disponibilità sotto la spinta demografica e dello sfruttamento selvaggio ed incontrollato, sicché esse sono divenute forzatamente parte del bene comune; per non parlare dei nuovi beni, manufatti e prodotti che ora risultano incorporati in quest’ultimo. Del pari impressionante è lo sviluppo intervenuto nell’area immateriale; il sapere si è articolato sia nella direzione di quello strettamente scientifico-tecnico, che in quello che mi verrebbe di chiamare “scientifico-umanistico” in senso lato, attraversato da una molteplicità di piani: filosofico, giuridico, economico, storico, linguistico …  al quale si aggiungono tutte le manifestazioni dello spirito umano che sono sussunte nel termine ‘arte’.

Naturalmente vi è (almeno) una ragione importante dietro a questa improvvisa fiammata di interesse, oltre alla motivazione opportunistica da parte di taluni, desiderosi di recuperare una sorta di verginità intellettuale e politica. Tale ragione è rappresentata dalla preoccupazione, da un lato, che il patrimonio costituito dal bene comune sia in serio pericolo; dall’altro, che le attuali classi dirigenti (per lo più le stesse che si sono susseguite negli ultimi decenni) non siano capaci - nell’ipotesi più benevola - di proteggere tale patrimonio. Da un punto di vista etico, l’argomento costituisce anche una leva non secondaria, in linea di principio, per impedire che una comunità intraprenda il percorso a ritroso, degenerando cioè in un collettivo “egoista”, attento soltanto all’interesse privato ed immemore del “patto” iniziale, ovvero degli originari principi di solidarietà e partecipazione.

Verrebbe da osservare che oggi il problema principale è costituito soprattutto dall’ambito degli scopi, vuoi perché questi sono passati per così dire in sott’ordine, vuoi perché hanno in parte perduto significato di fronte alle trasformazioni sociali ed alla crisi ormai chiaramente strutturale e di lungo termine che affligge l’intero Occidente.

E il territorio? Qui ci troviamo di fronte alle difficoltà, di ordine anche teorico – concettuale, maggiori. Come ho avuto modo di accennare di sfuggita in precedenza, non disponiamo ancora di una teoria del valore adeguata per il territorio. Propongo a chi mi legge un quesito: quale economista dell’ambiente ha detto: “dobbiamo fare un inventario ed attribuire un valore alle nostre risorse naturali ed agli ecosistemi in modo da includerne il valore nelle nostre pianificazioni e nei processi decisori, così come nella nostra contabilità nazionale”?
La risposta è: nessuno. Si trattava in realtà del Presidente del Botswana Ian Khama, il quale si è espresso in questi termini al Summit for Sustainability in Africa ospitato nella capitale Gaborone il 24-25 maggio di quest’anno. Sono dell’avviso che la domanda potrebbe, anzi dovrebbe essere sollevata – mutatis mutandis – anche dagli amministratori delle nostre città, e del pari difficilmente troverebbe una risposta adeguata; naturalmente, anziché di “capitale naturale” in senso stretto, come nell’esortazione del Presidente Khama, si tratterebbe in questo caso di “capitale urbano”.

Vi è poi un altro aspetto sul quale desidero richiamare l’attenzione di chi mi legge. Si tratta della distribuzione, o meglio: dell’accessibilità del bene comune sul territorio. Ritengo che qualsiasi amministrazione cittadina seria debba avere una “visione” preliminare del territorio: una idea di quello che la città “dovrebbe essere”, e che di tale visione  debba fare parte l’obiettivo di rendere l’anzidetta distribuzione la più omogenea possibile, ben inteso all’interno dei sistemi di vincoli economici, urbanistici, giuridici ecc. entro i quali  la stessa amministrazione  è costretta a muoversi.


A tale riguardo, servendomi della "macchina" CCM, posso fare qualche osservazione relativa alla città di Milano. Ritengo sia ragionevole convenire che, tra i pilastri principali del bene comune cittadino, siano la tutela della salute, la mobilità, l’educazione, la cultura, l’informazione, il verde pubblico,  il tempo libero, nonché servizi pubblici come poste ed anagrafe e – last but not least - la possibilità di professare un culto qualsivoglia. Inoltre mi sembra sensato convenire che la dislocazione di talune attività o servizi privati sul territorio debba integrarsi nella definizione di bene comune, ben inteso nel rispetto del principio della libertà dell’iniziativa imprenditoriale privata: se ad esempio tutti gli sportelli bancari, o tutti i supermercati fossero concentrati nella medesima, ristretta porzione di suolo urbano, questo inciderebbe sul diritto di molti cittadini di poter accudire adeguatamente alle esigenze ed alla cura della propria persona, e si rifletterebbe immediatamente sulla rispettiva qualità della vita.

Ciò premesso, il sistema CCM consente tra l’altro di calcolare – per ogni numero civico cittadino – il n. di servizi disponibili entro un raggio assegnato (solitamente 500 mt) secondo l’elenco precedente, integrato da banche e punti di vendita di prodotti alimentari e per la casa. Sulla base di questi numeri viene costruito, per ciascun numero civico cittadino, un indice globale detto “di qualità oggettiva ambientale della vita” mediante una tecnica avanzata di multidimensional scaling, o misurazione multidimensionale (l’indice in questione varia, per ragioni di leggibilità immediata, tra un minimo di 0 ed un massimo di 100). L’attributo ‘oggettivo’ si giustifica in quanto l’indice si basa sull’enumerazione di entità fisiche definite e localizzabili con la precisione necessaria a consentire un accurato calcolo della distanza da qualsiasi punto cittadino; non si prendono ovviamente in considerazione valutazioni e aspetti soggettivi, in quanto estranei all’indagine. L’attributo ‘ambientale’ sta ad indicare che l’attenzione non è sull’edificio e sulle sue condizioni (che possono essere qualsiasi); bensì sull’ “ambito di servizi accessibile” ad esso circostante.

Iniziamo domandandoci come siano distribuiti i numeri civici (in pratica gli edifici) ai quali, secondo i calcoli, compete un valore dell’indice "basso”, o meglio tra 0 e 15 (poco meno di 1/6 del valore massimo):



Nessuna sorpresa: tutti questi edifici appaiono collocati nella fascia esterna della città; nessuno di essi si trova nella parte centrale (ricordo che Milano è suddivisa in 9 zone, delle quali sono schematizzati i confini nella figura). Alziamo ora la soglia, e consideriamo l’intervallo di valori compreso tra 16 e 30:


 Qui ci troviamo di fronte ad una sorpresa: la distribuzione ha nuovamente l'aspetto di un anello irregolare perfettamente interno al precedente. Come si vede, anche la porzione centrale (ora più piccola che innanzi) non contiene alcun edificio con indice globale tra 16 e 30. La stessa situazione si ripropone se consideriamo l’intervallo 31 – 45:



Si noti che a questo punto siamo ancora lontani dai livelli “ottimali”, in quanto l’indice non raggiunge qui neppure la metà del valore massimo teorico (100). Ciò nonostante, questo ed i precedenti aggregati hanno già ricoperto circa il 95% dell’intera superficie urbana, mentre la somma degli indici ad essi relativi è soltanto il 70% del totale per Milano. Come dire che vi è un 5% del territorio urbano (il nucleo centrale, localizzabile soprattutto nella parte centro-orientale di zona 1 ed in alcune aree limitrofe), il quale - da solo - "spiega" circa il 30% del totale anzidetto. Si tratta di una prova abbastanza evidente, ancorché grossolana,  di una seria disomogeneità nel livello di accessibilità ai principali servizi da parte dei cittadini. Vediamo infine dove si concentrano i numeri civici per i quali l’indice globale supera il valore di 45:


La figura evidentemente non desta più alcuna sorpresa. Naturalmente non mancano numerosi esempi di discontinuità all'interno delle aree colorate di verde nelle precedenti figure. Ad esempio, il n. civico 20 di via Cappellini appartiene ad una piccola isola "privilegiata" (valore dell'indice: 47.9) rispetto alle vie immediatamente limitrofe (già in Via Settala 6 l'indice scende a 38), e l'elenco potrebbe continuare; ma si tratta di scarti che, se assumono rilevanza localmente, non modificano tuttavia il quadro strutturale complessivo.

La conclusione di questo excursus è evidente. L’antica struttura radiale della città ha conservato, attraverso i secoli, una forza tale al punto da concorrere a modellare la distribuzione dei servizi fondamentali che a buon diritto debbono rientrare nel bene comune, e poco o nulla è stato fatto per contrastare, o almeno modificare questa tendenza. La città di Milano, sotto il particolare aspetto analizzato in questa sede, si presenta pertanto non già come una “mela” a guisa di New York; bensì come una “cipolla”, una successione di strati netti e ben identificabili, che serrano dappresso una piccola area dotata di grandi privilegi.

Quest’ultima affermazione potrebbe sembrare una forzatura; ma è sufficiente porre mano ai dati statistici ufficiali per convincersi del contrario. Ad esempio, gli ultimi dati sui redditi per famiglia disponibili a livello di zona ripropongono in misura pressoché esatta la distanza, già sottolineata, tra il “centro” (zona 1) ed il resto della città. Fatto 100 il dato del primo, i valori relativi al secondo si allontanano grandemente, appiattendosi tra 36 per la zona 9 e 49 per la già citata zona 3. Se invece consideriamo lo stato dell’edificio,  le unità che possono definirsi in ottimo stato rappresentano il 17% del totale di zona 1; altrove precipitano tra il 12% ed il 9% (ancora zona 9). Di contro, quelle in pessimo stato sono il 20% in zona 5, e solo il 6% al centro, ed il discorso potrebbe continuare …

Da questo excursus è possibile trarre, a mio giudizio, una prima conclusione. Nel momento in cui mettiamo mano all'edificazione della "grande Milano" dimentiachiamoci della "cipolla". Cerchiamo di fare sì che le nuove porzioni di territorio che verranno ad integrare quella oggi definita amministrativamente come "Milano" non costituiscano semplicemente una cornice, uno strato ulteriore, "diverso" ed esterno, dove l'accesso ai servizi e la conseguente qualità del vivere si attestano su livelli ancora più bassi di quelli della prima figura.

Concluderò con il prossimo post queste riflessioni. Per ora l'augurio a tutti di una buona giornata.

Milano, 24 settembre 2012                                                    Claudio Conti 

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