Il tema del ‘bene comune’ sta subendo in Italia il
medesimo processo degenerativo di altri
dei quali si è abusato in un passato anche recente (‘piano’, ‘programma’,
‘concertazione’ …), con la conseguenza di suscitare adesso in noi fastidio, se
non addirittura la frustrazione che discende dalle “grandi” illusioni che
finiscono per trasformarsi in enormi delusioni. In tal modo siamo al paradosso
per cui l’espressione stessa (il denotante) è venuta a fare parte del denotato;
oggi non c’è infatti uomo politico, “emergente” o di vecchio corso, che non ritenga
opportuno un riferimento “di principio” al bene comune nei propri interventi pubblici,
guardandosi tuttavia dal fornire al suo uditorio una benché minima spiegazione
circa i significati che ad esso dovrebbero attribuirsi.
Questi significati sono divenuti naturalmente assai più complessi
rispetto al remotissimo passato al quale ho accennato nel precedente post; tanto l’area dei beni
comuni materiali che quella dei beni
immateriali si sono dilatate in misura impressionante. Nel primo caso il numero delle risorse utili
all’uomo è cresciuto a dismisura; di altre è stata compromessa la disponibilità
sotto la spinta demografica e dello sfruttamento selvaggio ed incontrollato,
sicché esse sono divenute forzatamente parte del bene comune; per non parlare
dei nuovi beni, manufatti e prodotti che ora risultano incorporati in
quest’ultimo. Del pari impressionante è lo sviluppo intervenuto nell’area
immateriale; il sapere si è articolato sia nella direzione di quello
strettamente scientifico-tecnico, che in quello che mi verrebbe di chiamare
“scientifico-umanistico” in senso lato, attraversato da una molteplicità di
piani: filosofico, giuridico, economico, storico, linguistico … al quale si aggiungono tutte le manifestazioni
dello spirito umano che sono sussunte nel termine ‘arte’.
Naturalmente vi è (almeno) una ragione importante dietro a questa
improvvisa fiammata di interesse, oltre alla motivazione opportunistica da
parte di taluni, desiderosi di recuperare una sorta di verginità intellettuale
e politica. Tale ragione è rappresentata dalla preoccupazione, da un lato, che
il patrimonio costituito dal bene comune sia in serio pericolo; dall’altro, che
le attuali classi dirigenti (per lo più le stesse che si sono susseguite negli
ultimi decenni) non siano capaci - nell’ipotesi più benevola - di proteggere
tale patrimonio. Da un punto di vista etico, l’argomento costituisce anche una leva
non secondaria, in linea di principio, per impedire che una comunità
intraprenda il percorso a ritroso, degenerando cioè in un collettivo “egoista”,
attento soltanto all’interesse privato ed immemore del “patto” iniziale, ovvero
degli originari principi di solidarietà e partecipazione.
Verrebbe da osservare che oggi il problema principale è costituito soprattutto dall’ambito degli scopi, vuoi perché questi sono passati per così dire in sott’ordine, vuoi perché hanno in parte perduto significato di fronte alle trasformazioni sociali ed alla crisi ormai chiaramente strutturale e di lungo termine che affligge l’intero Occidente.
E il territorio? Qui ci troviamo di fronte alle difficoltà, di ordine anche teorico – concettuale, maggiori. Come ho avuto modo di accennare di sfuggita in precedenza, non disponiamo ancora di una teoria del valore adeguata per il territorio. Propongo a chi mi legge un quesito: quale economista dell’ambiente ha detto: “dobbiamo fare un inventario ed attribuire un valore alle nostre risorse naturali ed agli ecosistemi in modo da includerne il valore nelle nostre pianificazioni e nei processi decisori, così come nella nostra contabilità nazionale”? La risposta è: nessuno. Si trattava in realtà del Presidente del Botswana Ian Khama, il quale si è espresso in questi termini al Summit for Sustainability in Africa ospitato nella capitale Gaborone il 24-25 maggio di quest’anno. Sono dell’avviso che la domanda potrebbe, anzi dovrebbe essere sollevata – mutatis mutandis – anche dagli amministratori delle nostre città, e del pari difficilmente troverebbe una risposta adeguata; naturalmente, anziché di “capitale naturale” in senso stretto, come nell’esortazione del Presidente Khama, si tratterebbe in questo caso di “capitale urbano”.
E il territorio? Qui ci troviamo di fronte alle difficoltà, di ordine anche teorico – concettuale, maggiori. Come ho avuto modo di accennare di sfuggita in precedenza, non disponiamo ancora di una teoria del valore adeguata per il territorio. Propongo a chi mi legge un quesito: quale economista dell’ambiente ha detto: “dobbiamo fare un inventario ed attribuire un valore alle nostre risorse naturali ed agli ecosistemi in modo da includerne il valore nelle nostre pianificazioni e nei processi decisori, così come nella nostra contabilità nazionale”? La risposta è: nessuno. Si trattava in realtà del Presidente del Botswana Ian Khama, il quale si è espresso in questi termini al Summit for Sustainability in Africa ospitato nella capitale Gaborone il 24-25 maggio di quest’anno. Sono dell’avviso che la domanda potrebbe, anzi dovrebbe essere sollevata – mutatis mutandis – anche dagli amministratori delle nostre città, e del pari difficilmente troverebbe una risposta adeguata; naturalmente, anziché di “capitale naturale” in senso stretto, come nell’esortazione del Presidente Khama, si tratterebbe in questo caso di “capitale urbano”.
Vi è poi un altro aspetto sul quale desidero richiamare l’attenzione di
chi mi legge. Si tratta della distribuzione, o meglio: dell’accessibilità del bene comune
sul territorio. Ritengo che qualsiasi amministrazione cittadina seria debba
avere una “visione” preliminare del territorio: una idea di quello che la città
“dovrebbe essere”, e che di tale visione
debba fare parte l’obiettivo di rendere l’anzidetta distribuzione la più
omogenea possibile, ben inteso all’interno dei sistemi di vincoli economici,
urbanistici, giuridici ecc. entro i quali la stessa amministrazione è costretta a muoversi.
A tale riguardo, servendomi della "macchina" CCM, posso fare qualche osservazione relativa alla città di
Milano. Ritengo sia ragionevole convenire che, tra i pilastri principali del
bene comune cittadino, siano la tutela della salute, la mobilità,
l’educazione, la cultura, l’informazione, il verde pubblico, il tempo libero, nonché servizi pubblici come
poste ed anagrafe e – last but not least - la possibilità di professare
un culto qualsivoglia. Inoltre mi sembra sensato convenire che la dislocazione
di talune attività o servizi privati sul territorio debba integrarsi nella
definizione di bene comune, ben inteso nel rispetto del principio della libertà
dell’iniziativa imprenditoriale privata: se ad esempio tutti gli sportelli
bancari, o tutti i supermercati fossero concentrati nella medesima, ristretta
porzione di suolo urbano, questo inciderebbe sul diritto di molti cittadini di poter accudire adeguatamente alle esigenze ed alla cura della
propria persona, e si rifletterebbe immediatamente sulla rispettiva
qualità della vita.
Ciò premesso, il sistema CCM consente tra l’altro di calcolare – per
ogni numero civico cittadino – il n. di servizi disponibili entro un raggio
assegnato (solitamente 500 mt) secondo l’elenco precedente, integrato da banche
e punti di vendita di prodotti alimentari e per la casa. Sulla base di questi
numeri viene costruito, per ciascun numero civico cittadino, un indice globale
detto “di qualità oggettiva ambientale della vita” mediante una tecnica
avanzata di multidimensional scaling, o misurazione multidimensionale
(l’indice in questione varia, per ragioni di leggibilità immediata, tra un
minimo di 0 ed un massimo di 100). L’attributo ‘oggettivo’ si giustifica in
quanto l’indice si basa sull’enumerazione di entità fisiche definite e
localizzabili con la precisione necessaria a consentire un accurato calcolo
della distanza da qualsiasi punto cittadino; non si prendono ovviamente in
considerazione valutazioni e aspetti soggettivi, in quanto estranei
all’indagine. L’attributo ‘ambientale’ sta ad indicare che l’attenzione non è
sull’edificio e sulle sue condizioni (che possono essere qualsiasi); bensì
sull’ “ambito di servizi accessibile” ad esso circostante.
Iniziamo domandandoci come siano distribuiti i numeri civici (in
pratica gli edifici) ai quali, secondo i calcoli, compete un valore dell’indice "basso”, o meglio tra 0 e 15 (poco meno di 1/6 del valore massimo):
Nessuna sorpresa: tutti questi edifici appaiono collocati nella fascia
esterna della città; nessuno di essi si trova nella parte centrale (ricordo che
Milano è suddivisa in 9 zone, delle quali sono schematizzati i confini nella
figura). Alziamo ora la soglia, e consideriamo l’intervallo di valori compreso
tra 16 e 30:
Si noti che a questo punto siamo ancora lontani dai livelli “ottimali”, in quanto l’indice non raggiunge qui neppure la metà del valore massimo teorico (100). Ciò nonostante, questo ed i precedenti aggregati hanno già ricoperto circa il 95% dell’intera superficie urbana, mentre la somma degli indici ad essi relativi è soltanto il 70% del totale per Milano. Come dire che vi è un 5% del territorio urbano (il nucleo centrale, localizzabile soprattutto nella parte centro-orientale di zona 1 ed in alcune aree limitrofe), il quale - da solo - "spiega" circa il 30% del totale anzidetto. Si tratta di una prova abbastanza evidente, ancorché grossolana, di una seria disomogeneità nel livello di accessibilità ai principali servizi da parte dei cittadini. Vediamo infine dove si concentrano i numeri civici per i quali l’indice
globale supera il valore di 45:
La figura evidentemente non desta più alcuna sorpresa. Naturalmente non mancano numerosi esempi di discontinuità all'interno delle aree colorate di verde nelle precedenti figure. Ad esempio, il n. civico 20 di via Cappellini appartiene ad una piccola isola "privilegiata" (valore dell'indice: 47.9) rispetto alle vie immediatamente limitrofe (già in Via Settala 6 l'indice scende a 38), e l'elenco potrebbe continuare; ma si tratta di scarti che, se assumono rilevanza localmente, non modificano tuttavia il quadro strutturale complessivo.
La conclusione di questo excursus è evidente. L’antica struttura
radiale della città ha conservato, attraverso i secoli, una forza tale al punto
da concorrere a modellare la distribuzione dei servizi fondamentali che a buon
diritto debbono rientrare nel bene comune, e poco o nulla è stato fatto per
contrastare, o almeno modificare questa tendenza. La città di Milano, sotto il
particolare aspetto analizzato in questa sede, si presenta pertanto non già
come una “mela” a guisa di New York; bensì come una “cipolla”, una successione
di strati netti e ben identificabili, che serrano dappresso una piccola area dotata di
grandi privilegi.
Quest’ultima affermazione potrebbe sembrare una forzatura; ma è
sufficiente porre mano ai dati statistici ufficiali per convincersi del
contrario. Ad esempio, gli ultimi dati sui redditi per famiglia disponibili a
livello di zona ripropongono in misura pressoché esatta la distanza, già
sottolineata, tra il “centro” (zona 1) ed il resto della città. Fatto 100 il dato
del primo, i valori relativi al secondo si allontanano grandemente,
appiattendosi tra 36 per la zona 9 e 49 per la già citata zona 3. Se invece
consideriamo lo stato dell’edificio, le
unità che possono definirsi in ottimo stato rappresentano il 17% del totale di
zona 1; altrove precipitano tra il 12% ed il 9% (ancora zona 9). Di contro,
quelle in pessimo stato sono il 20% in zona 5, e solo il 6% al centro, ed il
discorso potrebbe continuare …
Da questo excursus è possibile trarre, a mio giudizio, una prima conclusione. Nel momento in cui mettiamo mano all'edificazione della "grande Milano" dimentiachiamoci della "cipolla". Cerchiamo di fare sì che le nuove porzioni di territorio che verranno ad integrare quella oggi definita amministrativamente come "Milano" non costituiscano semplicemente una cornice, uno strato ulteriore, "diverso" ed esterno, dove l'accesso ai servizi e la conseguente qualità del vivere si attestano su livelli ancora più bassi di quelli della prima figura.
Concluderò con il prossimo post queste riflessioni. Per ora l'augurio a tutti di una buona giornata.
Milano, 24 settembre 2012 Claudio Conti
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